Paolo Villaggio, il tragico Fantozzi e l’appendicite

Per me Paolo Villaggio c’entra con l’appendicite. Cioè più precisamente Fantozzi, che poi, a ben vedere, lui e il suo autore sono un’unica e indissolubile questione. Uno gnommero, direbbe Gadda. Correva l’anno 1974, vengo ricoverato e sfettato come si conviene: diversi punti di sutura, ai tempi non è che si badava a spese. Ebbene, sempre come si conviene vengono a trovarmi parenti e amici. I quali ultimi, con una discreta perfidia diciamo, mi portano in dono nientepopodimenoche il “Secondo tragico libro di Fantozzi”. Il primo l’avevo divorato tre anni prima, il secondo era fresco di stampa, mi ricordo bene.
Il primo giorno ero ancora piuttosto rimbambito e di libri proprio non avevo voglia. Il giorno appresso invece ero pronto, e lì ebbe inizio una delle battaglie più memorabili della mia carriera di lettore: leggo qualche riga e subito mi viene da scompisciarmi. Ma non si può, avete presente i punti a graffetta che si usavano una volta? Altro che oggi con il refe che manco si vede e, a un certo punto, magicamente scompare. No, punti belli in vista con cerottone d’ordinanza e benzina medica. A ogni sussulto un male cane. Insomma, leggo tre righe, soffoco le risate, mollo la presa. Riprendo perché il libro è intelligente e divertente al tempo stesso: ma il rischio è alto. Il dottore mi dice che libri così non è il caso. Non adesso, perlomeno. Non ancora. “Ci manca anche di ridere dopo un’operazione a punti”. Sembrava che parlasse di un concorso a premi, e invece.
Fatto sta che per quel giorno niente libro. Lo lascio lì sul comodino, tra i Pavesini e il sale. Ma la sera tardi non ce la faccio: il compare di camera dorme della grossa, io accendo il lume e parto a leggere convinto. Trattengo qualche risata, mi soffoco quel paio di volte, tutto sommato la lettura procede senza scossoni. D’altronde se non hai sonno… Ma a un certo punto, punto vigliacco diciamolo subito, il Fantozzi Ugo nonché Villaggio Paolo colpisce con una battuta fulminante, se non ricordo male c’entrava il Grand’Uff. Lup. Mann. nell’ufficio megagalattico. Ecco: lì non ce l’ho fatta più, sono esploso in una risata che, nell’ordine, ha svegliato il russante e soprattutto liberato una graffetta dei punti, che è saltata via aprendo un angolo della ferita.
Ecco, per me Paolo Villaggio è anche il segno che mi porto dietro da oltre 40 anni: la ferita ha una specie di scarto, è qui da vedere. Potenza della risata, potenza della vis comica. Villaggio ha fatto un film con Fellini e uno con Olmi, ha vinto un Leone d’Oro alla carriera nel 1992, ma forse per i libri meritava qualche riconoscimento in più. Anzi di sicuro. In Russia nel 2012 gli avevano conferito il premio Gogol. Ecco, appunto, Gogol, quello del Cappotto. Roba eterna: proprio come lui, Villaggio, che da anni parlava di sé al passato remoto. “Io fui”, diceva di sé. D’altronde, se il mondo attorno è questo qui tanto vale trapassare in anticipo. Cosa che lui fece, anni fa, senza dare nell’occhio. Proprio come quando sosteneva che il Natale lui lo festeggiava a ottobre perché veniva meglio, visto che c’era decisamente meno confusione in giro.

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