Umberto Eco, o della proverbiale noncuranza

Oggi, 5 gennaio 2021, Umberto Eco avrebbe compiuto 90 anni. Quando scomparve, scrissi l’articolo che segue, individuando un aspetto critico nel suo sterminato metodo e sapere, qualcosa di simile a quel che accade con gli specchietti retrovisori: c’è un punto cieco, un istante nel quale la macchina che ti sta superando non la vedi proprio. Senza nulla togliere al genio di Alessandria e alle sue opere, che hanno formato perlomeno un paio di generazioni, questo punto cieco continuo a vederlo, con annesso rischio collisione.


In questi giorni segnati dalla commemorazione di Umberto Eco – un’epidittica talvolta elementare, in altri casi più articolata e commossa – in questi giorni dicevo mi son trovato a fare un discorso tutto mio a proposito dell’illustre alessandrino. Poco a che vedere con i suoi mille libri, articoli e interventi, le posizioni, le battaglie argute oppure di bandiera. Che fosse un gigante dello scibile è fin ovvio, ma era ed è altro che mi preoccupa e mi attrae: provo a raccontarvelo per come mi viene.

Nella sua sterminata produzione intellettuale, Eco si è occupato di tutto, dall’estetica di san Tommaso ai Puffi passando per il cruscotto della Punto, cui dedicò un intero corso al Dams. Cultura enciclopedica, erudizione immensa, memoria prodigiosa: Eco arrivava ovunque, per ogni argomento distillava un pensiero volutamente eccentrico, spesso inatteso per ampiezza e ridondanza, sorprendente per rimandi e citazioni. Mica per niente fu tra i promotori del progetto Encyclomedia, un ipertesto organizzato in 75 ebook interconnessi tra loro.

Ma se ci fate caso, e per me è questo il nocciolo, la costante della sua produzione stava nel tono: sempre ironico, leggero, svagato, quella sua studiata e proverbiale noncuranza, altrimenti detta sprezzatura. Ad ascoltarlo, ma anche spiando tra le righe, sembrava che – per fare giusto un esempio – tra l’apocatastasi e gli imenotteri non è che ci fosse ‘sta gran distanza, ovvero che da ogni luogo o concetto si potesse agevolmente giungere a qualsivoglia altro, per via di efficace erudizione, unendo i puntini come nel gioco della Settimana Enigmistica; come se, in fondo, quest’ambito valesse l’altro; e al ragionamento, all’argomentare che si impegna e magari sfianca, si potesse a buon diritto sostituire il calembour, il collegamento spiazzante, il motto di spirito, l’esercizio di stile. 

Ora, a mio avviso questo atteggiamento sta al pensare come il marciare sul posto alla maratona. Oh, si fatica in entrambi i casi, ma il primo gesto è sterile, non conduce da nessuna parte, sei lì che sudi ma vigliacco se ti muovi; mentre il secondo impeto ti anima e smuove, apre orizzonti, schiude regioni e ragioni, ti mette faccia a faccia con il mistero dell’Altro, ti getta in una prospettiva etica. Come scrive Heidegger da qualche parte, persino nel termine fenomeno è sempre inscritto un compito. Un pensiero per il quale tutto alla fin fine è sostanzialmente uguale, o perlomeno simile, tutto avviluppato all’analogo e portato all’uniforme, per me non è un pensiero. Un pensiero che voglia a buon diritto dirsi tale deve saper dire e restituire la differenza. Deve essere capace di sorpresa non per la citazione peregrina, o per quel collegamento bizzarro e inconsueto, ma per l’esubero di senso che genera e provvede. Un pensiero che si fa questione e sfida, non un sapere che bulimico trattiene ogni nozione, forma ed espressione, restituendo da quel corpo di balena non dico un Giona, o un Pinocchio con tanto di Geppetto, ma giusto qualche magnifico zampillo dallo sfiato. Eco pensatore barocco, dunque: immenso, stratosferico e lunare, contemporaneo, immaginifico e plurale, ma talvolta pago della magia e dell’artificio, sprovvisto dell’inquieta nobiltà di chi sa affrontare il rischio e persino l’errore. Sentite Alfonso Gatto, per gradire: «Nel mio rischio / di vivere riscopro il necessario, / la mia fame, la sete, il passo, il fischio, / la verità che a caccia dell’errore / gli apre le braccia, nuda per amore». A dar retta a quel perfido di Gómez Dávila, si potrebbe dire che «ci sono intelligenze capaci solo di ciò che in ogni cosa non è essenziale». Ecco, ditemi voi se ci prendo o vaneggio, ma a volte mi trovo a pensare che il nostro tempo è tutto qui, in questo pensiero dell’indifferenza che ordinatamente dispone e livella ogni cosa, dove tutto è lecito e sensato, possibile e polare. E nulla – o poco, o raramente, o quasi – disgraziatamente si interroga e ragiona.


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2 Commenti

  • Daniele Plebani Posted 28 Febbraio 2016 19:37

    Il pensiero che livella tutto è sterile… Fortunati quelli che sanno pensare tenendo il sorriso sulle labbra…

  • silvia Posted 28 Febbraio 2016 13:55

    La tua riflessione mi sta facendo pensare…non avevo mai considerato Umberto Eco in questi termini !

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