La scrittura come professione?

Nel suo blog lo scrittore Giorgio Fontana si interroga sul perché la scrittura intesa come professione non venga valorizzata. Qui trovate il post in questione. Il tema mi stimola molto, e mi sono provato a buttar giù qualche riflessione in forma di lettera, sperando che qualcuno di voi abbia voglia e modo di riprendere il tema.
Opera di Franco Sanna, Quattro… quasi infiniti alfabeti, Acrilici, resine e collage su tela, 2009.

Caro Giorgio,
ho letto il tuo post dell’altro giorno, quello sulla scrittura. Mi ha colpito, perché è un tema su cui mi capita di soffermarmi, per lavoro e non solo. La convinzione diffusa, mi pare, è che la scrittura non faccia la differenza, non sia essenziale, non decisiva. Saper scrivere bene – che poi se vogliamo è equivalente al saper scrivere e basta – non viene percepito come valore perché per la maggioranza l’importante è far capire quel che si vuol dire, mentre il come dirlo e il dirlo bene vanno a farsi benedire.
Da noi in azienda ci sono persone che puntano alla referenzialità pura, scrivendo testi con un mare di errori: “L’importante è che si capisce”, affermano al primo rilievo. Certo che si capisce (in certi casi manco quello), ma questa scrittura ridotta all’osso, pura ostensione di cose, non qualifica, non differenzia, non vale. In effetti, come dici tu, dalle nostre parti il termine lavoro identifica una prestazione solida, concreta: se tiri su un muro lo vedi, lo tocchi. Anzi, meglio: lo vendi. Se articoli un concetto, perdi tempo, magari lo fai giusto per farti vedere. Ecco un altro punto: per qualcuno la scrittura è esibizione, un farsi belli, rientra nel campo dell’estetica intransitiva, del pavoneggiarsi senza costrutto, del tempo da perdere. Allora: se la scrittura è tempo perso, non vedo perché dovrei pagare uno che perde tempo, e magari si diverte pure. Già tanto se non mi paga lui, dico io.
Nel mio piccolo mondo, il fatto di saper scrivere significa che talvolta in azienda vengo chiamato a redigere qualcosa di importante: la frase ricorrente è “Tu che sei capace”. Ecco un ultimo aspetto, ma ce ne sarebbero tanti altri: a volte la scrittura viene riconosciuta, ma senza la minima consapevolezza della fatica che ci vuole. Il “tu che sei capace” significa “tu che non ci metti niente”, anzi “tu che in fondo ti diverti”, come detto sopra. Insomma: la scrittura viene omologata ad altre prestazioni non necessariamente consimili, apparentato alla logica del fare, e per tale misurata.
Oggi la maggioranza delle comunicazioni scritte, sto pensando anche alle mail, è mero scambio di contenuti: un po’ la differenza tra il nutrirsi e il mangiare, con tutto il corredo antropico, educativo e persino religioso che il termine mangiare implica e comporta. Sospetto anche che l’aspetto retorico – o meglio argomentativo, vera carta di tornasole della democrazia – venga percepito con fastidio in tempi dove molti sono convinti di avere ragione sempre, prima e comunque. Per cui, al massimo, chi volesse essere retribuito con la scrittura dovrebbe semmai agghindare la ragione di chi presume di aver ragione, non certo affrontare il diritto e il rovescio di una qualsivoglia questione. Insomma, temo che il saper scrivere venga riconosciuto per tale solo quando rafforza una ragione, e non quando aiuta a illuminare la o meglio le ragioni. Quando si chiude a vantaggio di qualcuno, non quando si apre a vantaggio di tutti.
Un abbraccio, Claudio

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