Tiro mancino_andata

Illustrazione di Stefano Misesti

 

Un mio racconto in due parti ambientato nel mondo della mala milanese, la lingera.


Semplice, mi hanno pagato. Quando promettono di pagarti a lavoro finito al limite ci pensi, ma quando i soldi te li trovi davanti salta fuori il senso del dovere. Certo che il dovere esiste anche in queste cose qui. Anche i farabutti rispettano i patti, sennò andrebbe tutto in malora. È così, si fidi.
Morale sono andato a cercare il vecchio. Pensavo un colpo secco al ginocchio e quello smette di camminare bene. Oppure smette proprio del tutto, dipende come è fortunato. Di solito quelli che stendo non sto lì a seguire cosa succede dopo. Ma delle volte ci sto attento, una specie di statistica. Anche questo è lavoro, sapere come è andata a finire. Nelle aziende grosse c’è uno che si occupa del cliente, alla consegna gli chiede se è tutto a posto nel servizio. Ecco, io mica sono un’azienda, ci mancherebbe anche quello. Però una specie magari sì, con quelli che mi pagano devo essere preciso. E per convincerli che ci so fare gli racconto qualche mio lavoretto, le volte prima fanno carriera. Ti danno quel qualcosa, diciamo.
L’avevano avvertito di lasciar perdere, ma a quanto pare il vecchio non mollava. Io del motivo meno so, meglio è. Si vede che aveva pestato i piedi sbagliati. Infatti quelli volevano una roba pesante, ma io gli ho consigliato di andarci leggeri la prima volta: «Fategli capire che non scherzate e quello si sgonfia». Il parere di un esperto non si discute, morale mi hanno detto: «Basta che funziona». «Ha sempre funzionato» ho risposto io. Non è vero, ma se lo dici con la faccia giusta sembra di sì.
L’ho aspettato con il cane. Cioè lui con il cane, io dietro il cancello dei giardini. D’estate il parco lo lasciano sempre aperto, certo poi dentro succede di tutto, non sto a raccontarle lo schifo che c’è, da non crederci. Il vecchio l’avevo tenuto d’occhio per qualche sera: un orologio, arriva ai giardini alle dieci, molla il guinzaglio e il cane sgrufola via in cerca di compari. Lui si fa una cicca, secondo me alla moglie non glielo dice neanche. La sera il cane lo porta lui per farsi una cicca in santa pace, sicuro. Le donne in casa non vogliono che si fuma, la mia per dire mi ha fatto smettere. Meglio, la salute a una certa età bisogna starci attenti.
Allora, quello scioglie il cane, accende la cicca, beve un sorso alla fontana. Momento giusto, vado. Mi tiro giù la visiera del berretto, sarà anche vecchio ma meglio non rischiare. Mi avvicino con la giratubi, quella la nascondi facile nel giornale e dove colpisce fa il lavoro pulito. In quel momento il vecchio mi si gira, sono lì con la chiave che rimbalza la luce del fanale. Lui lascia andare la cicca neanche a metà, la spegne con la punta del sandalo. «Faccia in fretta» mi dice.
È come se una donna che ti piace ci prova lei, capisce? Da che mondo è mondo sono i maschi che si danno da fare, le femmine sono lì che aspettano e fanno finta di niente. È come a scacchi, i maschi hanno i bianchi e gli tocca la prima mossa. Ma se una donna parte prima lei ci rimani male, anche se ti piace. Soprattutto se ti piace, direi. Altro che “faccia in fretta”, calma un attimo, ragioniamo. In queste cose è come con gli scacchi: per fare la mossa giusta devi pensare che hai l’eternità davanti.
Ma se te lo dice lui, il bersaglio dico, come fai a fare in fretta? Cioè, io faccio sempre in fretta, un colpo e via, ma stavolta il vecchio mi ha detto quello che devo fare, e allora capirà bene che non è facile. Morale, siamo lì davanti che non mi decido. «Dia qui» mi dice. Non capisco. «La chiave» fa lui. Non so come, gliela passo. «Si usano queste, adesso?» mi fa intanto che si siede e si tira su la manica. «Ai miei tempi bastava un calcio dato bene». “Ma pensa?”, mi dico. «Col tacco» precisa. E poi: «Cosa devo colpire? Ginocchio?». Ma questo qui da dove mi salta fuori? «Sì, il ginocchio» mi scappa detto. «Quale?» e sembra il medico quando ti chiede dove ti fa male. «Di solito faccio il destro» dico adagio.
Morale si è tirato un colpo da solo, secco. È andato giù con un soffio, non ha neanche gridato, si vede che non voleva attirare l’attenzione. Un professionista. Da terra mi passa la chiave e mi fa: «Grazie». «Ma grazie di cosa, scusi?» dico io. Sospira, con il ginocchio a pezzi non è mica facile parlare, ve lo dico io. «Grazie che li ha convinti di farmi solo il ginocchio» ha sussurrato. «Adesso è meglio se si leva di qui».
Mi hanno pagato prima, ma il lavoro non l’ho fatto io. Sei mesi e sono ancora qui che ci penso a come è andata. Non so neanche se il vecchio ha smesso di piantar grane, quelli comunque non li ho più sentiti. Sei mesi che di lavoro non ne arriva neanche l’aria, tra l’altro, se va avanti così va a finire che torno a fare il buttafuori. Con il vecchio devo avere sbagliato qualcosa, vedrai se non è così. Devo capire cosa, perché in futuro certe cose ti fanno venire dei dubbi che guai.
A quelli ho detto «tutto a posto, lavoro pulito». Più pulito di così, in effetti. Solo che il vecchio si è tirato il colpo lui, mica posso fare finta che me la sono sognata. Mi ha detto anche grazie, pensa te. Quando mi ha ridato la giratubi, il cane era lì che gli leccava la mano, la sinistra. Perché il vecchio era mancino, non mi ricordo se gliel’avevo già detto, dottore.


La seconda parte del racconto

L’illustrazione è di Stefano Misesti.

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