La passeggiata di Tommaso Landolfi

Parafrasando Magritte, questo racconto di Landolfi non è una passeggiata. È costruito con parole desuete, arcaiche, strambe, oscure. Ma assolutamente vere e certificate, non frutto della peraltro fertile fantasia dello scrittore nativo di Pico. È un magistrale centone di parole belle, proprio come quelle che ogni tanto mi diverto a presentare.

La passeggiata

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.

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Se non siete esausti, ecco un mio campionario di espressioni fuor d’uso, con il vantaggio della spiega.

Sono tante le parole che si usano senza pensarci troppo. Prendete “ciofeca”, espressione del sud Italia che sta per schifezza, roba immangiabile o imbevibile. Ma ciofeca sta anche per qualcosa che è venuto male, anche per un soggetto non proprio bello, un film, per dire, e via esportando. Senonché, come spesso accade, alla domanda “da che deriva ‘sta ciofeca?” facile che gli interlocutori ci fissino con lo sguardo a mezzo tra “Non hai di meglio da fare?” e “Proprio a me lo devi chiedere?”. Io alla faccenda mi ci sono appassionato, come spesso mi accade per le cose inutili. Innanzitutto ciofeca è parola prediletta da Totò, a proposito del caffè, e da Gattuso, a proposito dei suoi tiri sbilenchi. E qui già siamo nel Parnaso, per dire. Ma quando se si vuol scavare si incontra dapprima il carciofo: qualcuno sostiene, magari pure a ragione, che facendo bollire le parti dure del carciofo si ottiene una soluzione amara e per l’appunto schifosa, e da carciofo a ciofeca alla fin fine ci siamo. Ma forse la storia non è così facile: in arabo “safaq” è una bevanda di bassa lega, scadente. Dalla presenza araba pare che il termine si sia diffuso nel Mezzogiorno, fino all’attuale ciofeca. Una storia davvero interessante, a riprova che le contaminazioni della lingua sono cosa bella e giusta.


Da ciofeca a razzente il passo non è breve.

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7 Commenti

  • Claudio Calzana Posted 28 Marzo 2011 14:10

    Eccome se può essere utile, grazie Ifigenia. Pubblicherò il link tra qualche giorno. Un saluto, Claudio

  • Ifigenia Posted 27 Marzo 2011 22:23
  • Claudio Calzana Posted 13 Ottobre 2009 20:48

    Devo dire che ci ho provato, armato di buone intenzioni. Ma è dura, durissima. Ci sono due strade: cercare su Internet la parola finché si trova qualche dritta, ma il più delle volte non si va lontano. Oppure armarsi di santissima pazienza e sfogliare i 24 volumoni del Battaglia, il Dizionario della Lingua Italiana, che ho la fortuna di possedere. Ci ho provato qua e là e ne ho scoperte di tutti i colori. Per una traduzione vera e propria ci vorrebbe una squadra di esperti volontari, che si incaricano di individuare qualche parola per ciascuno. Se ne trova qualcuno, ci potremmo provare tutti insieme. Un saluto, ccalz.

    • Sottosuolo Posted 26 Novembre 2018 07:19

      Durissima? Sfogliare le pagine del vocabolario non è poi così difficile, basta umettare i polpastrelli in caso di secchezza

  • Anonymous Posted 13 Ottobre 2009 12:09

    caro claudio,

    lei sarebbe capace di tradurre il racconto in italiano standard o di glossare le parole gergali o obsolete?
    Ricorrendo a quali fonti?

    Froggie1

    • Sottosuolo Posted 26 Novembre 2018 07:17

      Basta un vocabolario della lingua italiana, gente …

      • claudio calzana Posted 26 Novembre 2018 15:14

        Grande Sottosuolo!

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